Fiumi d'acqua viva...
Vedendoci guariti
2 Re 5,14-17/ 2 Tm 2,8-13/ Lc 17,11-19
È tempo di camminare, fidandoci del Signore...
Sale a Gerusalemme Gesù, tutta la
sua vita è proiettata all’incontro con quella città, la culla della fede ma
anche il nido delle vespe della religiosità aggressiva e ottusa. Sale con
determinazione, col volto indurito, scrive Luca. Attraversa la Samaria e
la Galilea. Cammina verso l’assoluto. Cammina verso la resa dei conti. Cammina
verso la Santa. Ma intanto attraversa la vita, le città. Incontra la gente, si
confronta, agisce. Vive. La sua vita interiore non è a parte, lontana, inaccessibile.
Non lo rende un alieno. È presente, il Signore. A sé e al mondo. Vede. Si
accorge. Ha compassione. Avrebbe di che starsene chiuso in sé stesso, a meditare
a riflettere. E invece. Sulla strada gli si fanno incontro dieci lebbrosi che
urlano a distanza. Se siamo in cammino l’intera umanità ci si fa incontro,
gridando. Possiamo fare come il ricco che non vede Lazzaro, o raccogliere la
sfida di chi attende salvezza. Gesù ha fatto la sua scelta. Da tempo.
Gridano
Gridano, i lebbrosi. Devono
fermarsi a distanza. Per farsi ascoltare, urlano. Come accade ancora oggi,
nelle nostre caotiche vite, nelle nostre grandi e anonime metropoli in cui i
rumori, le urla sguaiate, le accuse, le contrapposizioni sovrastano ogni parola
pronunciata sottovoce. È un tempo in cui si urla, il nostro. Devono urlare per
chiedere pietà. Perché se sì tace nessuno si accorge di loro. I rabbini
dicevano che un lebbroso era come un morto e poteva solo contaminare chi lo toccava.
E che la lebbra era la massima punizione che Dio infliggeva al peccatore. Sono
dieci. Dieci sono le dita di una mano, il numero dieci indica, in Israele, la
totalità. Siamo tutti malati, tutti lebbrosi, tutti bisognosi. La loro vita si
consuma nel vedere il loro corpo cadere a pezzi, marcio. La loro anima, da
tempo, è morta, divorata dal giudizio della gente e dai sensi di colpa che li
fanno credere colpevoli davanti aldio impietoso dei farisei. Appesi al giudizio
impietoso degli altri, come noi, spesso. Dei dieci uno è straniero, nemico, un samaritano.
La malattia e il dolore accomunano ogni uomo, senza distinzioni di religione o
di etnia. La sofferenza resta l’esperienza più comune del vagare umano. Ce ne ricordassimo.
Urlano il loro dolore, il loro abbandono, il loro lento inesorabile imputridire.
Chiedono pietà, la compassione che nessuno offre loro. E, forse, sperano in un’elemosina.
Gesù chiede loro di andare dai sacerdoti per essere guariti. A volte Gesù ci
guarisce a rate, ci chiede di metterci in cammino per vedere dei risultati. A
volte Gesù, simpaticone, ci chiede di andare da un prete per essere guariti. Ma
dai.
Il Tempio
È un retaggio dell’antico
Israele, quando il sacerdote fungeva anche da ufficiale medico: solo lui poteva
attestare la guarigione e il reinserimento nella società di un lebbroso. Li
manda dai sacerdoti, il Signore, porta rispetto per il passato di Israele, non
è venuto a cambiare uno iota o un segno, ma a dare compimento, a riportare alla
propria origine il progetto di Dio. La guarigione non è istantanea, richiede un
cammino, obbliga a fidarsi; Dio non ama i miracoli eclatanti, chiede sempre
consapevolezza, cammino, fiducia, mediazione. Ci vuole tutta la vita per
guarire dalla lebbra del peccato e della solitudine. Non esistono cambiamenti
definitivi che non richiedano tempo e pazienza, costanza e fiducia. I dieci
vanno, forse delusi dal non avere visto la propria pelle risanarsi all’istante
e, mentre camminano, si accorgono di essere guariti. Anche a molti di noi
accade di guarire per strada, quando la smettiamo di porre condizioni a Dio e noi
stessi. Solo camminando verso il tempio veniamo purificati da ogni lebbra del cuore.
Stupiti, straniti, sconvolti, i lebbrosi guariti adempiono la richiesta di Gesù
e vanno dal sacerdote. Eccetto uno, colui che non ha tempio, che non ha
sacerdoti, non ha religione. Il suo tempio, sul monte Garzi, è stato raso al
suolo dagli ebrei. Non sa dove andare e torna sui suoi passi. Nona un tempio
dove andare. Torna al Tempio.
Vedendosi guarito
Vedendosi guarito racconta
Luca. Si vede, infine. Vede cos’è, sul serio. Si vede con uno sguardo nuovo,
infine. Vede che è cambiato, che non è più lo stesso. È guarito, ora. Dentro e
fuori. La pelle è risanata, ora sta per risanare lo sguardo. Abituato a
considerarsi un maledetto da Dio, vittima prescelta, destinatario di un
orribile destino. Il suo pensiero guarisce. La sua anima guarisce. Si scopre amato.
Vedendosi guarito. È quello che possiamo fare anche noi. Dieci guarisce,
certo, ma solo se ci mettiamo in strada, solo se ci vediamo dentro, solo se ci
osserviamo, solo se prendiamo consapevolezza. Non è la nostra vita che cambia,
è lo sguardo che abbiamo su di essa. Da vittime a protagonisti. Da appestati a
uomini liberi.
Lodando
Uno solo torna a ringraziare,
pieno di fede. Gesù, sconfortato, constata che dieci sono stati sanati,
ma uno solo salvato. Il samaritano torna indietro lodando Dio a gran
voce, non può tacere, urla la sua gioia, la sua solitudine la sua emarginazione
sono finalmente finiti. E gli altri? Chiede Gesù. Nulla, spariti, scomparsi.
Guarire gli uomini dalla loro ingratitudine è ben più difficile che guarirli
dalle loro malattie. Essere guariti non significa essere salvati. I nove
ingrati sono la perfetta icona di un cristianesimo molto diffuso, che ricorre a
Dio come ad un potente guaritore da invocare nei momenti di difficoltà. Che
triste immagine di Dio si fabbricano coloro che a lui ricorrono quando c’bisogno,
che lasciano Dio ben lontano dalle loro scelte, dalla loro famiglia, salvo poi arrabbiarsi
e tirarlo in ballo quando qualcosa va storto nei loro (badate, non nei suoi)
progetti. I nove sono guariti: hanno ottenuto ciò che chiedevano, ma non sono salvati.
Rimasti chiusi nella loro parziale e distorta visione di Dio, guariti dalla
lebbra sulla pelle, non vedono neppure la lebbra che hanno nel cuore. Il Dio
che hanno invocato è il Dio dei rimedi impossibili, non il Tempio in cui
abitare, il Potente da corrompere e convincere, non il Dio che, nella
guarigione, testimonia che è arrivato il tempo messianico. È tempo di
camminare, fidandoci del Signore. È tempo di vederci con uno sguardo diverso,
guariti, infine. È tempo di tornare indietro gridando a gran voce la gloria di
Dio e le opere che compie in noi.
Commento di Paolo Curtaz