DALLA GUARIGIONE AL DONO DELLA SALVEZZA Lc.15,11-32
Spunti di riflessione per la Liturgia Penitenziale
SCHEDA n. 1: IL PADRE
Il testo di Lc oggetto della nostra meditazione, potrebbe essere definito il
Vangelo della Libertà.
Vi si coglie, infatti, l’infinita libertà di Dio di fronte ai suoi figli, le
libere decisioni dei figli stessi, e il cammino della libertà, inteso come
cammino di liberazione dal peccato alla vera, autentica libertà.
La figura del Padre:come viene presentato nel testo,può essere subito
riconosciuto quale figura di Dio. Sua caratteristica è l’umiltà. L’unico che
può essere umile è solamente Lui. Lui soltanto può fare spazio all’esistenza
dell’altro, in quanto Egli solo occupa ogni luogo, ogni essere. L’umiltà di Dio
è il suo ritirarsi perché noi esistiamo.( Per indicare questo, la mistica
ebraica usa l’espressione "zimzum")
Questo Dio, questo Padre umile che si autolimita perché la sua creatura, il
figlio, esista nella libertà, è anche il Padre che sta alla finestra ad
attendere il ritorno del figlio. Lo si comprende dal v.20: " Quando
era ancora lontano il Padre lo vide e, commosso, gli corse incontro" .
Il Padre scrutava da lungo tempo l’orizzonte; il padre era, per così dire,alla
finestra in attesa del desiderato ritorno. Questo atteggiamento che la parabola
lascia intravedere nella discrezione e nel pudore del racconto,si potrebbe
chiamare: la speranza di Dio. In realtà, l’altro nome dell’umiltà è la
speranza. L’umiltà è fare spazio all’altro perché esista,è contrarre se stessi,
perché l’altro esista, è dare fiducia all’altro perché l’altro sia se stesso,
costruisca se stesso, esprima se stesso, in una risposta libera e gratuita
d’amore. E’ coltivare un atteggiamento positivo, di speranza verso l’altro.
Tutta la storia della salvezza è nella dimensione della speranza, perchè
l’Incarnazione è l’umiltà di Dio, l’autolimitazione, il contrarsi di Dio perché
l’uomo possa rispondere all’Amore con l’amore.
Ciò che consente di parlare di umiltà e di speranza, è anche l’atteggiamento
del Padre che corre incontro al figlio che ritorna. La parola chiave è commosso: in
aramaico: "rachamim". Nel testo originale, l’amore di Dio può
essere espresso con due vocaboli: "hesed" che indica
l’amore maschile,indicante il Dio della fermezza, della sicurezza, della
fedeltà e "rachamim" che letteralmente vuol dire "
viscere materne" e sta a significare che Dio ama con l’amore viscerale
della madre, non in rapporto al merito della sua creatura, ma semplicemente
perché la sua creatura esiste.(basti pensare alle testimonianze stupende di
Is.49,14-16 e 63,16;Ger.31,20; e del salmo 131)
La terza caratteristica del padre della parabola è la compassione, l’amore
viscerale materno,l’amore per il quale egli ha rispettato fino in fondo la
libertà del figlio. L’umiltà e la speranza di Dio non cessano di attendere il
ritorno dei suoi figli, con un amore più forte di tutto il non-amore con cui
può essere corrisposto.
Ancora nel v.20 emerge una quarta caratteristica: il padre della parabola corre
incontro al figlio. Da notare che secondo la mentalità semitica, questo era un
gesto scandaloso, perché il padre doveva sempre avere un modo di essere
solenne, quasi ieratico. Era il figlio che veniva a presentarsi e si prostrava
davanti a lui.La parabola ci pone davanti un padre che non ha paura di perdere
la propria dignità, anzi sembra metterla in pericolo. L’autorità di un padre
non sta tanto nella distanza che sa creare con il figlio, quanto nell’amore
irradiante che egli esprime. Potremmo defnire questa quarta caratteristica come
il coraggio dell’amore di Dio: il coraggio di infrangere le convenzioni, le
false sicurezze,le distanze. Dietro certi modi autoritari e severi di fare,si
nasconde una incapacità di amare e quindi un bisogno di difendere la propria
autorità.
La quinta caratteristica risulta da ciò che fa il padre quando il figlio
arriva: felice come una Pasqua, fa festa, lo bacia, lo abbraccia, ingiunge ai
servi di portare il vestito più bello,di mettergli l’anello al dito,i calzari
ai piedi, e niente di meno, ammazzare il vitello grasso,che è la vera ricchezza
della famiglia per una società agricola.E’ la festa che in cielo si fa per un
solo peccatore che si converte, che per i novantanove giusti che non hanno
bisogno di penitenza. E’ la gioia di Dio.
Un Dio che sa essere contento,però prima aveva sofferto. Se in Dio c’è la
gioia, significa che vi è anche un mistero di sofferenza, che trae la sua
origine dalla compassione, dall’amore viscerale del Padre. Nell’ora
dell’abbandono del figlio sulla croce, il mistero della sofferenza del Padre
raggiunge il suo culmine. Noi crediamo in un Dio che soffre, perché è un Dio che
ama. Ecco l’ultima caratteristica del padre: la sofferenza di Dio. Il padre
della parabola, non rivela un Dio indifferente alle vicende umane,e quindi alla
storia delle sue sofferenze,ma un Dio che è capace di soffrire per amore della
sua creatura. C’è poi nel v. 24 una affermazione importantissima ripetuta nel
v. 32, in cui il motivo della gioia e del dolore è così espresso: "Questo
mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato
ritrovato" . Conviene riflettere sulle due motivazioni:il primo
motivo del dolore del padre è che il figlio era morto, ha distrutto se stesso.
Dio soffre perché il fglio ha alienato, ha annientato se stesso. Il secondo
motivo perché era perduto, si collega al fatto che si era allontanato da Lui.
Vi è qui una sfumatura di rara bellezza:Dio soffre prima di tutto perché la sua
creatura soffre e soltanto in secondo luogo perché tale sofferenza è causata
dall’allontanamento da Lui. Come avviene per ogni vero amore, al primo posto
non è il dolore del nostro cuore, ma il dolore dell’altro, la rovina
dell’altro. Se Dio non potesse amare,semplicemente non potrebbe soffrire. Il
mistero della sofferenza in Dio è il mistero della sua infinita capacità di
amare, senza la quale noi saremmo veramente degli inetti e dei burattini
davanti al mistero di Dio.
Scheda n. 2: I DUE FIGLI
Davanti a questo padre, stanno i due figli. Si presenta per prima la figura del
più giovane, di quello che ha voluto gestire la vita per conto proprio.In che
cosa è consistito il suo peccato? " Padre, dammi la parte del
patrimonio che mi spetta. E il padre divise fra loro le sostanze". E’
interessante notare che nel testo greco, la parola "sostanze"
è resa con tòn bìon, cioè la vita, quello che aveva per la vita.Il
figlio più giovane è quello che non ne vuole sapere del padre nella gestione
della vita. Il peccato di questo figlio è un peccato di ricchezza,un
voler essere padroni della propria vita,un escludere di affidare perdutamente e
incondizionatamente questa vita nelle mani di Dio, un voler mettersi al posto
di Dio nel gestire la sostanza della vita
Quale è il destino che attende il nostro giovane? "Partì per un
paese lontano e là sperperò le sue ricchezze, vivendo da
dissoluto". Nel testo greco, verbi, avverbi e aggettivi esprimono
molto bene la separazione, la lontananza dal padre, lo sperpero dei beni e le
penose conseguenze. Il segno evidente della miseria raggiunta è data dal v.16.
che, letto nel contesto semitico,è veramente sconvolgente. In quel contesto,
bere e mangiare insieme stava ad indicare comunione di vita, assimilazione a
quelle persone, identità di essere e di scegliere. Inoltre, in Israele, il
maiale era considerato l’animale impuro per eccellenza, il simbolo del male,
della alienazione..La degradazione del figlio, era giunta al punto tale,da
desiderare almeno la comunione con i maiali,da desiderare di essere almeno
nelle loro condizioni. L’espressione così pittoresca, manifesta quanto è grande
il dramma del peccato. Gestire la vita da sé,significa non vivere più,aver
smarrito il senso,la bellezza,la forza,l’essenza della propria vita. Il figlio
più giovane arriva a prendere coscienza di tutto questo,e delinea un
itinerario, che davvero si può definire un cammno dalla ricchezza alla povertà,
dalla sicurezza e falsa protezione di sé, all’umiltà, all’abbandono. Lui che ha
voluto gestire la ricchezza della vita per conto proprio, in modo solitario,che
ha voluto essere come padrone di sé, chiuso in se stesso,arriva come un povero
davanti a Dio per confessare il proprio nulla. Questo itinerario, che è poi
l’itinerario di ogni vera conversione, si svolge in cinque tappe:
La prima tappa: la percezione dell’esilio esteriore.: egli avverte che in
quella situazione ci sta male.In fondo ogni vera conversione parte dalla chiara
consapevolezza di sé, una consapevolezza che a volte si manifesta anche a
livello psicologico con problemi di senso. Vi è un senso di alienazione di sé,
come di miseria. Ci si sente come poveri, inutili, spogliati ed esiliati.
La seconda tappa è il ricordo della casa paterna:nella quale perfino i
salariati stanno bene.Tra l’esperienza della propria miseria e il ricordo di
una abbondanza perduta, viene a profilarsi il terzo momento dell’itinerario
della conversione,
L’esilio interiore:percepire l’esilio esteriore non basta,è necessario
accorgersi che la radice di tutti i mali è la propria separazione da Dio, in
tutte le sue forme.E’ la separazione da Colui che immensamente ci ama,è aver
voluto gestire la propria vita, immensamente ricchi di sé,ma in realtà molto
poveri di Dio,e quindi alla fine poveri di se stessi. E che , alla fine, la
decisione di lasciare la casa è dipesa da noi. Ecco il quarto omento
Il no al passato e il Si al futuro:perché tornare, perché la nostalgia della
casa paterna? Perché è una casa ricca di pane, ricca di amore, ricca di
gratuità. Perché là possiamo vivere nell’amore, giorni d’amore, dissetarci alla
sorgente dell’amore.Senza questo quarto momento, la conversione non produrrebbe
i suoi frutti. E’ lì dove si percepisce che la speranza è possibile e Dio, nel
suo amore, accogliendoti nella sua casa, ti offre la possibilità di una vita
nuova. Qui sta la differenza del dramma di Pietro e di Giuda. Pietro ha tradito
Gesù non meno di Giuda; ma Giuda si ferma alla terza tappa: Giuda sente il
dolore indicibile della separazione, ma non osa fare un passo in avanti, l’atto
di speranza, abbandonarsi all’amore di Dio. Pietro, invece, piange amaramente e
confida nel perdono e nella misericordia del Signore.
Andare al Padre: questa è la quinta tappa. La riconciliazione sacramentale
rende visibile il cambiamento del cuore e dice ai fratelli di aiutarci in
questo itinerario di amore verso Dio. E’ il decidersi per Dio, è il levarsi
convinto senza il quale la conversione rimarrebbe un pio desiderio, ma non si
tradurrebbe in vita nuova che cambia il destino di una esistenza.Il cammino
della conversione, in fondo è questo: un cammino di umiltà e di povertà di sé,
che Dio riempie del suo Amore e della sua gioia.
C’è, infine, l’altro figlio ,il terzo e ultimo personaggio della parabola. Il
figlio maggiore è rimasto sempre in casa, in una situazione di vicinanza fisica
al padre.E’ uno che non è mai uscito dagli atri della casa del Signore.
Eppure la vicenda del figlio maggiore fa subito capire che la vicinanza
esteriore non significa necessariamente vicinanza del cuore. Si può
vivere tutta una vita nella casa di Dio,e non amare Dio…Non basta
essere garantiti dalle mura della casa del Signore. Quel che conta veramente è
l’essere innamorati di Dio. Anche il figlio maggiore vive il suo dramma. Non
perdona al padre di aver perdonato il fratello. Qui i due figli sono di fronte
allo stesso peccato. Il figlio maggiore vuole gestire lui la vita, farsi lui
arbitro del bene e del male, né più né meno come ha fatto il figlio più
giovane. Pur essendo sempre accanto al padre,si può essere talmente lontani da
lui,da giudicar la vita e il cuore degli altri. E il padre che fa? Anche in
questo caso rinuncia alla propria dignità. Esce di casa per convincerlo, va da
lui,quasi a chiedere perdono del suo amore. Il figlio dice delle cose
giuste(vv.29-30)E tuttavia, davanti al suo atteggiamento di giudizio, il padre
lo invita alla conversione, ad uscire dalla logica del merito e del
profitto,per entrare nella logica dell’amore."Questo tuo figlio era
morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato" Perciò
bisognava far festa. Il padre invita il figlio maggiore a convertirsi anche lui
alla povertà, a passare dalla ricchezza di chi presume di giudicare tutto e
tutti, alla povertà di chi si lascia condurre da Dio e giudicare da Dio. Il
figlio maggiore ci fa capire quanto è importante che nella nostra vita ci sia
qualcuno che ci giudici. Perdere il senso e la bellezza di Dio
giudice,significa non riconoscere la necessità di Qualcuno che ti possa dire, come
solo Dio sa fare,chi tu veramente sia. Abbiamo tutti bisognoso di qualcuno che
ci faccia capire chi veramente siamo. E questo può farlo soltanto il giudizio
di Dio e non il giudizio di un uomo. Il figlio maggiore è colui che non ha
bisogno di un Dio giudice perchè giudica da sé. Si è messo al posto di Dio. Ed
ecco allora l’invito del Padre, quello di entrare nella logica della gratuità:
non giudicare secondo i pesi della ragione e del torto, ma far pendere tutto
dalla parte dell’amore più grande.
La parabola finisce qui. Resta però il vero problema, perché la parabola non
dice come vanno a finire le cose:la parte più interessante, quella tutto
sommato più difficile,sta nel come continuerà la vita del figlio più giovane,
una volta tornato,e che cosa accadrà nella vita del figlio maggiore. Qui si può
avanzare un’ipotesi. Probabilmente la parabola termina qui, perché deve
continuare nella vita di ognuno di noi. In altre parole, dobbiamo essere noi la
continuazione del santo evangelo in cui viene raccontato ciò che nella parabola
è taciuto. Che cosa è la vita di una donna e di un uomo, dopo che si sono
convertiti dalla ricchezza alla povertà e hanno accettato di dare il primato
incondizionato a Dio nella gestione della vita?
p. Roberto Zambolin