INDUISMO
Sotto il nome d'induismo s'intende indicare la religione della nazione indiana, formatasi per un processo millenario di sovrapposizione e di fusione di tradizioni religiose diverse, In esso coesistono infatti dottrine e pratiche differenti, e persino contraddittorie: monoteismo, panteismo e politeismo, ad esempio, vi hanno uguale diritto di cittadinanza. Ciò è dovuto, oltre che alla mancanza di un « fondatore » capace di dargli un'impronta personale e unitaria, anche alla particolare mentalità di questo popolo, poco amante del rigore logico e della sintesi, ma ricco d'intuizione e di fantasia, naturalmente portato a tollerare tutte le espressioni del pensiero.
L'induismo possiede un patrimonio letterario vastissimo e di grande interesse, per lo più anonimo, nel quale si distinguono testi più antichi, i Veda, e testi più recenti, le Upanishad, e le opere successive, quali il Ramayana, il Mahabharata e il Codice di Manu.
Per chiarezza di esposizione, distingueremo nell'induismo tre grandi momenti: il vedismo, ossia la forma più antica, che si rifà ai Veda; il brahmanesimo, nato dalla riflessione dei sacerdoti, detti brahmani o bramini, che si rifà alle Upanishad e ai testi sacri posteriori, e infine l'insieme delle credenze e dei riti praticati dalla maggioranza del popolo indiano, che chiameremo induisrno popolare.
Esso emerge dalla religione di natura degli ari, popolazione immigrata in India verso la metà dei_ secondo millennio avanti Cristo. 1 suoi libri sacri sono un insieme di scritti diversi per stile, contenuto e tempo di composizione. Secondo l'ipotesi più probabile, essi risalgono al periodo che va dal 1500 al 500 avanti Cristo.
Ciò che maggiormente colpisce il lettore occidentale è la varietà del loro contenuto, che appare come un coacervo di elementi i più disparati, come un insieme disordinato di rozzezza e di poesia, di formule magiche e di elevate norme morali, e dove, accanto a una grande quantità di dèi e di spiriti, appaiono alcune timide intuizioni monoteistiche. Da tutto questo materiale è possibile tuttavia ricavare alcune linee generali di pensiero che ci permettono di farci un'idea del vedismo.
a) La Divinità
I Veda conoscono 33 Divinità diverse: 11 per il cielo, 11 per l'aria e 11 per la terra, la cui origine risale alle preesistenti religioni di natura. Alcune di tali Divinità emergono per importanza: ricorderemo Aggi, che è il fuoco ed è il dio dei sacerdoti, perché con esso si compiono i sacrifici; indra, che è il dio dell'aria, al cui seguito è Vayu, dio del vento e i Maruts, gli spiriti della tempesta. Tra gli dèi celesti, possiamo ricordare Vishnu, che « sorregge il cielo e puntella la terra »- Surya, il dio del sole, e Ushas, che è l'aurora, e alla quale sono dedicati i più bei versi del Rig-Veda. Prajapati è il creatore del mondo, ma è ben lontano dall'essere inteso come il Dio delle religioni monoteistiche. Solo Varuua possiede dei caratteri che si avvicinano a quelli della Divinità, quale è concepita da noi. Egli conosce infatti tutto ciò che accade al di sopra e al di sotto del cielo; è l'ordinatore del mondo e il « signore di se stesso », ed è anche colui verso il quale tende il cuore dell'uomo, desideroso d'instaurare con la Divinità un rapporto personale non solo di timore, ma anche di stima e di affettuosa fiducia
Se è vero che emerge qua e là nei Veda l'aspirazione verso un Dio personale, « unico dio tra gli dèi », è anche vero che si tratta solo di intuizioni momentanee, di rari sprazzi di luce. Nell’insieme, l'idea vedica del divino è ancora vaga e imprecisa, dominata per lo più da un primitivo politeismo.
Grande importanza rivestono nella religione vedica il sacrificio e il sacerdozio. Di fronte al rito sacrificale, che si presenta in forme numerose e diverse, la Divinità sembra conservare una certa libertà nel vedismo più antico. Col passare del tempo, però, il sacrificio viene ad assumere un'importanza sempre più rilevante, tanto da diventare un vero atto magico, che costringe il soprannaturale a piegarsi ai voleri dell'uomo. La parola sacrificale (brahama) è considerata come la chiave che tutto apre, la realtà che tutto ottiene.
Di qui prende le mosse la speculazione brahmanica per affermare che proprio in tale parola si ha la manifestazione più alta dell'Essere, si ha la realtà che racchiude in sé quell'Energia sacra (Brahama) che tutto spiega e tutto muove. Ma con questi concetti si esce dal vedismo per entrare nel pensiero brahmanico.
b) L'uomo
Per il vedisimo, l'uomo è fatto di corpo e di spirito. Se c'è una certezza nel pensiero indiano è quella dell'esistenza dello spirito. Un indù potrebbe dubitare della realtà della materia, ma non di quella dello spirito, la cui esistenza rimane uno dei cardini fondamentali dell'induismo. Nel vedismo non è ancora presente la credenza, poi tanto radicata, della trasmigrazione dell'anima da un corpo all'altro attraverso successive rinascite. L'anima dell'uomo è immortale, e alla fine della vita riceve un premio o un castigo a seconda dei meriti.
2. Brahmanesimo
Per brahmanesimo s'intende lo sviluppo storico della religione vedica. Esso deve il suo nome alla casta dei brahmani, sacerdoti e asceti che hanno dato luogo, a partire dal 500 avanti Cristo, a un vasto rinnovamento religioso, sviluppatosi in due fondamentali direzioni: una ritualistico-sacrificale e una religioso-filosofica.
La corrente ritualistica pone l'accento sul valore dei riti e dei sacrifici quali strumenti essenziali di salvezza. 1J il sacrificio che dà il senso più vero e più profondo alla vita, poiché chi lo compie si identifica con esso, ottiene la liberazione dai peccati, e viene assimilato alla stessa Divinità, diventando immortale. Da questa visione magica del sacrificio deriva tutta una teoria e una precettistica sui diversi riti sacrificali, sul loro valore e sulle loro modalità di esecuzione, per noi priva di ogni interesse.
La corrente filosofica invece si presenta ricca di contenuto, impegnata com'è ad affrontare il problema del divino e della possibilità di attingerlo, non con mezzi esterni, ma con la ricerca interiore.
a) Il Brahma
Oggetto primo della riflessione brahmanica è l'Uno, il Tutto, l'Assoluto, il Brahma o brahman. Già nel Rig-Veda si trova un accenno all'« Uno », principio esplicativo impersonale di tutte le cose. Ora esso prende il nome di Brahma. « Tutto quanto esiste è Brahma », affermano le Upanishad: esso « era all'inizio tutto questo universo » .
Ciò significa che il Brahma non è un Dio personale distinto dal mondo, ma è come l'anima del mondo stesso, ad esso preesistente e in esso presente e operante; è l'Essere « illimitato », « non nato » e « imperscrutabile » che è al fondo di ogni cosa come la sua vera essenza. Tutto da lui viene e tutto a lui ritorna in un eterno nascere e morire di realtà, emanazioni dell'unico ed eterno Brahma. Esso è presente nelle cose così come una manciata di sale è presente in una brocca d'acqua. E come il sale dà il sapore a tutta l'acqua, così il Brahma dà la realtà, dà l'essere a tutte le cose di questo mondo visibile. Il mondo infatti non è se non il Brahma nella sua « forma materiale », ossia, in sostanza, « null'altro è che pensiero »
Come si vede, si tratta di una concezione rigorosamente panteista e monista, perché tutto è ricondotto all'unica realtà del Brahma, tanto che l'essenza stessa del mondo sensibile è di natura spirituale.Tuttavia, se la riflessione filosofica sfocia nel vita religiosa lo supera spesso per uno slancio del cuore verso un Dio unico e personale, come vedremo parlando della Bhakti.
b) L'uomo
Se tutto ciò che esiste è spirito, è Brahma, sarà spirito e Brahma anche l'uomo nella sua realtà più vera, quella interiore. Una delle verità fondamentali dell'induismo è infatti l'identità esistente tra lo spirito umano, detto atman, e il Brahma universale. L'atman, che è il « Sé che è dentro al mio cuore », ossia la radice più profonda della mia personalità, non è in realtà che il Brahma divenuto cosciente di se stesso. L'anima dell'uomo è dunque una realtà increata e divina, è una scintilla del grande fuoco del Brahma costretta nella prigione di un corpo materiale.
Se l'uomo si lascia vincere dalle passioni e dai desideri dei sensi, e conduce una vita di peccato, dopo la morte non potrà liberarsi da questa prigione ma, per espiare il male commesso, dovrà rinascere in una vita successiva, assumendo il corpo di un uomo di condizione inferiore o addirittura di un animale. La letteratura induista conosce una quantità di rinascite disonorevoli diverse, dipendenti dai diversi tipi di peccato commessi dorante la vita .
Se invece l'uomo vive rettamente e, attraverso lo studio dei Veda, le opere di bene, le rinunce dell'ascetismo e l'uso di alcune tecniche di concentrazione, di cui quella yoga è la più conosciuta, arriva a percepire la natura divina della propria personalità profonda, allora avviene la sua trasformazione interiore: egli prende coscienza di essere il Brahma, sa « che a lui appartiene il mondo », anzi che egli « è il mondo stesso ». Così facendo diviene immortale perché, libero dai legami della materia, ritorna al Brahma e in lui si perde per sempre. Come una goccia di pioggia, tornando in seno al mare, viene in esso riassorbila e diventa mare essa stessa, così è dell'anima che ritorna al Brahma.
Condizione necessaria per prendere coscienza della propria essenziale identità col Brahma, è il distacco dall'azione (karmau) e, prima ancora, quello da ogni desiderio di beni materiali» . Quando ogni desiderio terreno sia stato sopito. « allora il mortale diventa immortale e ancora quaggiù fruisce del brahman. Scopo della vita è dunque quello di liberarsi dai legami terreni per attingere il Brahma nella profondità più intima di noi stessi, raggiungendo così la pace beatificante in questo mondo, e la liberazione dalla legge delle rinascite dopo la morte.
Naturalmente, il traguardo del distacco dai beni e dai desideri terreni non s'improvvisa. Per arrivarvi è necessario partire da una vita retta, vissuta secondo giustizia, nella quale si cerchi anzitutto di evitare il peccato e, se si è caduti nella colpa, di liberarsene al più presto col pentimento sincero e l'umile confessione. Il Codice di Manu (circa III secolo a.C.), che è la più famosa raccolta di precetti morali dell'induismo, insiste sia nel raccomandare la fuga dal peccato perché, vi si dice. « ogni azione malvagia, una volta commessa, ha inevitabilmente delle conseguenze per l'autore », sia nell'inculcare l'esercizio delle virtù. Tra di esse, ricorderemo il rispetto dovuto ai genitori e ai superiori, tanto sentito dai popoli dell'antico Oriente, l'esercizio della custodia dei sensi e quello di una pazienza benevola e misericordiosa verso tutti gli uomini .
Siamo di fronte ad espressioni di un nobile ideale morale, che ha dei punti di contatto con quello evangelico. Così, di sapore evangelico ci appare l'invito a non accumulare beni materiali, ma ricchezze spirituali per la vita ultraterrena, e ad attendere serenamente la morte, e con essa il premio per il bene operato.
c) Il movimento della Bhakti
Un posto di particolare rilievo nella storia dell'induismo spetta al movimento religioso, detto della Bhakti (amore, devozione), per l'influenza positiva che ha esercitato sulla spiritualità indiana. Gandhi, ad esempio, la considerava come l'espressione dell'induismo più vicina al suo spirito. Il testo sacro di questa corrente è la Bhagavad-Gita , ossia il « Canto del Beato », che fa parte di un lunghissimo poema epico, il Mahabharata, vera enciclopedia dell'induismo, risalente circa al quarto secolo avanti Cristo.
La Divinità che la Gita ci presenta, Bhagavad, ossia il Beato, non è più il Brahma impersonale che abbiamo imparato a conoscere, ma è un essere personale. è Krishna, umanizzazione di Vishnu, inteso come principio e sovrano di tutto. « lo sono il padre di questo mondo - afferma Bhagavad -, io ne sono la madre, l'ordinatore, l'antenato. Io sono la meta. l'alimento, il Signore, il testimonio, la casa, il rifugio, l'amico, la nascita, la morte, la patria, il tesoro, il seme indistruttibile».
L'autore della Gita è uno spirito acuto e vede chiaramente il pericolo di dissoluzione morale insito in una mentalità materialista. Per superarla, esorta i suoi lettori a una religiosità autentica, fatta di « devozione » intima e profonda a Dio, di offerta a lui di tutta la vita, perché lui solo è degno di esserne lo scopo ". Il carattere spiccatamente interiore del pensiero bhakti appare anche dall'importanza data alla « fede » », ossia alla conoscenza amorosa della Divinità .
E per la fede infatti, è per l'intima unione del nostro spirito col divino, che fino da questa vita possiamo attingerlo ed entrare in rapporto con lui. Non si tratta ovviamente di una fede puramente intellettuale, ma di un'adesione alla Divinità di tutto il nostro essere, che trova nell'amore totale e incondizionato la sua più alta espressione.
Si ha qui il superamento della religiosità egocentrica e autosufficiente dei bramini, con una religiosità fondata sulla fiducia e sull'amore in un Dio buono e personale, per tanti aspetti vicina alla religiosità cristiana.
Il grande influsso esercitato dalla Bhakti ha consentito che si conservasse vivo nel brahmanesimo, accanto al prevalente indirizzo panteistico, anche un filone di pensiero monoteista, giunto fino ai nostri giorni.
3. Induismo popolare
Per induismo popolare s'intende la religione praticata dalla grande maggioranza del popolo indiano. Essa, pur avendo subìto l'influenza della riflessione brahmanica, ha conservato molti elementi della tradizione precedente, primo fra tutti il grande numero di divinità del panteon vedico, anche se chiamate con altri nomi. Tra loro spiccano per importanza Brahma, il Creatore, Vishnu, il Conservatore, che prende il posto del vedico Varuna ed è il dio maggiormente venerato, e Siva, il Distruttore. Ad essi fanno riscontro tre divinità femminili, spose del dio e madri dei loro figli: a Brahma corrisponde Sarasvati, a Vishnu Laksmi e a Siva Sakti, detta anche Kalì, la « nera », cui è consacrata la città di Calcutta.
Per l'induista colto, queste divinità che prega e onora non sono che diversi modi di essere di un'unica Divinità, il Brahma impersonale il quale, per operare nel mondo e compiervi determinate azioni, assume diversi « corpi spirituali » adatti alle azioni corrispondenti, divenendo a volta a volta questo o quel dio particolare.
Ma, accanto a questa visione delle cose, esiste, specie tra le masse più incolte, un vero e proprio politeismo. che si nutre del culto di numerosi simulacri, ritenuti i corpi visibili degli dèi. Essi sono ospitati in templi sontuosi e serviti da una numerosa schiera di sacerdoti i quali li svegliano al mattino, fanno loro il bagno, li vestono, li nutrono e la sera li mettono a letto.
La vita e le imprese di questi dèi, inoltre, non sono sempre molto esemplari, così come il loro culto non è sempre immune da aspetti ripugnanti. Quello di Siva, ad esempio, e di Kalì, si accompagnava un tempo a sacrifici umani, e ancor oggi comporta pratiche moralmente ambigue. I riti e i sacrifici sono per lo più intesi come azioni magiche, né mancano esempi di fanatismo religioso e di usanze aberranti.
Basti pensare all'uso, un tempo frequente e vietato dalla legge solo dopo l'occupazione britannica, di sacrificare la vedova di un defunto durante i funerali del marito, o al fanatismo di quei devoti che nelle processioni si gettano sotto le ruote dei carri sacri. Basti pensare ancora ad alcune crudeli pratiche di fachirismo, o alla proibizione di nutrirsi di carne di vacca, animale sacro agli dèi, in un Paese cronicamente afflitto dalla fame.
Né si può dimenticare che l'induismo ha fornito la giustificazione della divisione della società in rigide classi o « caste », con al vertice la casta sacerdotale e alla base una massa di uomini, gli intoccabili, privi di ogni dignità e diritto.
Non è facile dare una valutazione d'insieme di un fenomeno così vasto e vario com'è l'induismo, mai pervenuto a una sintesi di pensiero coerente e unitaria.
Per quanto riguarda il problema di Dio, la mancanza di sintesi ha fatto sì che convivessero in esso differenti concezioni del divino. Dalla speculazione brahmanica, orientata in senso panteista, all'amorosa devozione di un Dio unico e personale, propria della Bhakti, fino alla religiosità popolare, praticamente politeista, l'induismo ammette tutte le forme possibili di rappresentazione della Divinità. Resta come dato comune l'interesse profondo verso l'Assoluto, che fa di questo popolo uno dei più religiosi del mondo. L'induismo è anche la religione dello spirito e della sua affermazione sulla materia, è la religione della vita interiore anteposta all'attività esterna. E’ sempre a quel mondo intimo di pensieri, di desideri, di speranze, di gioie e di dolori, che costituisce la nostra più vera identità, che è rivolto l'interesse della religione indiana, nella certezza che l'uomo, penetrando in se stesso, possa cogliere l'elemento divino che è al fondo del proprio essere e così liberarsi da ogni gravare della materia.
L'esaltazione dello spirito viene fatta però a scapito del mondo sensibile. Per l'induismo, la materia è solo apparenza, il corpo è una prigione, la vita terrena una condanna. Il mondo visibile non è, come per i cristiani, opera di Dio e riflesso della sua bontà, ma pura vanità e illusione, è un male da cui bisogna liberarsi. Ed è questa, con ogni probabilità, la radice ultima dell'atavico disinteresse del popolo indiano verso i valori terreni, siano essi di carattere scientifico, economico o sociale, e della conseguente situazione di grave sottosviluppo protrattasi fino ai nostri giorni.
Tuttavia per noi occidentali, immersi in un clima di pesante materialismo, la ricerca appassionata dell'Assoluto e il primato accordato ai valori dello spirito, propri dell'induismo, può essere motivo di un ripensamento critico nei confronti di una civiltà come la nostra, che sembra aver rifiutato non solo Cristo, ma ogni valore che non sia l'utile immediato e il godimento sensibile.
Testi e documenti
Le intuizioni monoteistiche del vedismo
Chi sta fermo, chi si muove e chi va tortuosamente, chi si nasconde, chi se la svigna, ciò che due sedendo insieme deliberano, questo sa, come terzo, il re Varuna.
Questa terra è del re Varuna e quell'alto cielo dai lontani confini; e i due oceani [il celeste e il terrestre] sono le cavità del ventre di Varuna, ed egli è nascosto in questa poca acqua.
chi riuscisse a passare oltre il cielo dall'altra parte, non sarebbe libero dal re Varuna. Le spie di lui dal cielo vengono qua, con mille occhi guardano da una parte all'altra della terra.
Tutto il re Varuna vede, ciò che è tra i due semimondi [cielo e terra] e ciò che è al di là. Da lui sono numerati i battiti d'occhio degli uomini; egli conta, come un giocatore i dadi, [tutte] queste cose.
(Atharva-Veda, lib. IV, c. 16, in Inni dell'Atharva-Veda, vol. II, Zanichelli, Bologna 1933, pp. 98-99).
Sagge sono le creature mercé la grandezza di lui, che ha separatamente puntellato i due vasti semimondi [cielo e terra]. Egli ha spinto in su l'alta e grande volta celeste, egli veramente [ha spinto in su] l'astro [il sole] e ha disteso la terra.
questo con me stesso io dico: « Quando potrò essere presso di Varuna? Quale mia offerta gusterà egli senza collera? Quando con sereno animo contemplerò la sua benignità? ».
Domando di questa mia colpa, o Varuna, con desiderio di conoscerla: mi reco dai sapienti per interrogarli. Una stessa cosa anche i savi mi hanno detto: « Questo Varuna è certo in collera con te ». Quale è stata, o Varuna, la colpa maggiore, per cui vuoi uccidere il tuo inneggiatore, il tuo amico? Rivelamela, o difficile a ingannarsi, o signore di te stesso. Che, mondo di colpa, io ti possa presto riconciliare mediante l'omaggio.
Le male opere dei padri sciogli da noi e quelle che noi abbiamo commesse da noi stessi.
(Rig-Veda, lib. VII, c. 86, in Inni del Rig-Veda, vol. II, Zanichelli, Bologna 1931, pp. 79-80).
[Quel] germe d'oro sorse nel principio; appena nato fu l'unico signore di ciò che esiste. Egli sostenne la terra e il cielo: a qual dio dobbiamo fare omaggio con l'oblazione?
Colui che dà il respiro, che dà il vigore, il comando del quale tutti gli dèi eseguono; l'ombra del quale è l'immortalità e la morte: a qual dio dobbiamo fare omaggio con l'oblazione?
Colui che per la sua grandezza è divenuto unico re di ciò che respira e chiude gli occhi, del mondo; che è padrone del bipede e del quadrupede: a qual dio dobbiamo fare omaggio con l'oblazione? Colui per mezzo della grandezza del quale questi [monti] nevosi [esistono] e dicesi [che c'è] il mare insieme con la Rasa (1); le due braccia del quale sono questi punti cardinali: a qual dio dobbiamo fare omaggio con l'oblazione?
Colui dal quale il cielo possente e la terra furono fissati, dal quale fu stabilita la luce e la volta celeste; il quale nello spazio mediano fu il misuratore dell'atmosfera: a qual dio dobbiamo fare omaggio con l'oblazione?
Colui al quale le due schiere [il cielo e la terra] sostenute dalla sua protezione, guardano tremando nell'animo; nel quale [sostenuto] risplende il sole quando spunta: a qual dio dobbiamo fare omaggio con l'oblazione?
Quando vennero le grandi acque portando in sé il tutto [come] germe, generando Agni, di là egli sorse, l'unico spirito vitale degli dèi: a qual dio dobbiamo fare omaggio con l'oblazione?
Colui che per la sua grandezza abbracciò con lo sguardo le acque, recanti in sé la capacità creativa, generanti il sacrificio; il quale fu unico dio tra gli dèi: a qual dio dobbiamo fare omaggio con l'oblazione?
(Rig-Veda, lib. X, c. 121, Inno al dio ignoto, in Inni del Rig-Veda, vol. II, pp. 164-165).
Allora non c'era il non essere, non c'era l'essere; non c'era l'atmosfera, né il cielo al di sopra. Che cosa si muoveva? Dove? Sotto la protezione di chi? Che cosa era l'acqua [del mare] inscandagliabile, profonda?
Allora non c'era la morte, né l'immortalità; non c'era il contrassegno della notte e del giorno. Senza [produr] vento respirava per propria forza quell'Uno: oltre di lui non c'era nient'altro. Tenebra ricoperta da tenebra era in principio; tutto questo universo era un ondeggiamento indistinto. Quel principio vitale che era serrato dal vuoto, generò se stesso [come] l'Uno mediante la potenza del proprio calore.
(Rig-Veda, lib. X, e. 129, in Inni del Rig-Veda, vol. II, p. 170).
(1) fiume mitologico che circonda la terra.
Il Brahma
Brahaman, invero, era all'inizio tutto questo universo. Esso solo esisteva, illimitato all'est, illimitato al sud, illimitato al nord, illimitato all'ovest, illimitato di sopra, illimitato di sotto, infinito in ogni direzione. Per costui non ci sono limiti come est, ovest, eccetera: non esiste traverso, né sopra, né sotto. Questo supremo Sé è immisurabile, non nato, imperscrutabile, impensabile ed è essenziato di etereo spazio. Allorché Tutto viene distrutto [alla fine di ogni evo cosmico], Esso solo veglia: [indi], a partire da questo etereo spazio, esso risveglia questo [mondo], che null'altro è che pensiero; da lui questo universo è meditato ed in lui viene riassorbito.
(Maitry-upanisad, [o Maitraiyaniya-upanisad], c. 5, n. 17, in Upanisad antiche e medie, Boringhieri, Torino 1968, p. 579).
« Butta questo sale nell'acqua e ritorna a me domani mattina ». Svetaketu obbedì al padre. Allora il padre gli disse: « Portami ora quel sale che tu ieri sera hai gettato nell'acqua ». Svetaketu guardò nell'acqua e non lo vide più. Si era sciolto. « Assapora un po' di quell'acqua prendendola alla superficie. Com'è? ». « È salata ». « Assapora un po' di quell'acqua prendendola in basso. Com'è? ». « È salata ». « Assapora ancora e vieni da me ». Il figlio gli obbedì e gli disse: « t sempre lo stesso ». Allora il padre disse a Svetaketu: « Così pure, o figlio mio, tu non afferri l'essere, e pertanto esso è presente ivi [ove tu sei]. Tutto quanto esiste è animato da questa essenza sottile; essa è l'unica realtà, essa è l'àtman (2). E tu stesso, o Svetaketu, lo sei ».
(Chandogya-upanisad, let. VI, c. 13, nn. 1-3, in Upanisad antiche e medie, pp. 307-308).
Spirito puro il cui corpo è soffio di vita, la cui forma è luce, il cui concetto è verità, la cui essenza è spazio, sorgente di ogni attività, di ogni desiderio, di ogni percezione di odore o di gusto, abbracciante quanto vi è, muto, indifferente.
... Sorgente di ogni attività, di ogni desiderio, di tutte le percezioni di odore e di gusto, abbracciante tutto ciò che è, muto, indifferente, è questo Sé [Carnali], che è dentro il mio cuore. Questo è lo stesso brahman. Colui il quale dice a se stesso: « Uscendo da questo mondo in lui trapasserò », in verità non vi è per lui alcun dubbio di essere nel giusto.
(Ibidem, let. III, c. 14, nn. 2, 4, pp. 249-250).
(2) Atman è spesso sinonimo di brahman.
Rinascite di condanna
Voglio ora insegnarvi con precisione ed ordine quali peccati deve aver commesso uno spirito di vita per essere esiliato quaggiù in questo o quel corpo.
I peccatori di prima categoria, dopo essere passati per lunghi anni attraverso gli orribili luoghi del tormento, al termine di questo periodo, per espiare gli ultimi resti del peccato, vengono condannati alle seguenti reincarnazioni.
L'uccisore di un bramino, a seconda delle diverse circostanze del crimine, abiterà il corpo di un cane, o di un cinghiale, o di un asino, o di un cammello, o di un toro, o di una capra, o di un montone, o di un cervo, o di un uccello, oppure di un « candala » o di un « puccasa » (3)
Un sacerdote che ha gustato bevande inebrianti assumerà la forma di un verme, o di un insetto, o di un tarlo, o di una mosca che si nutre di lordure, o di qualche fiera.
Chi ruba dell'oro a un sacerdote finirà mille volte nel corpo di ragni, serpenti e camaleonti, o di coccodrilli e altri mostri acquatici, o di sadici e sanguinosi demoni.
Chi viola il letto del padre naturale o spirituale vagherà cento volte sotto forma di erbe, cespugli, piante rampicanti e liane, di avvoltoi e di altri uccelli carnivori, di leoni e di altre fiere dai denti aguzzi, o di tigre ed altre bestie feroci.
... Chi ha avuto contatti con uomini abbietti, oppure è stato legato in modo punibile con la donna altrui, o ha sottratto cose comuni a un sacerdote, verrà trasformato in uno spirito chiamato Bramaracsiasa.
Un criminale che per avidità ha rubato rubini od altre gemme, perle, coralli o altri oggetti preziosi, di cui esistono tante specie, nascerà nella casta degli orefici o tra gli uccelli che vengono chiamati « hemacaras », ossia produttori di oro.
Chi ruba frumento non trebbiato rinascerà come topo; il ladro di bronzo, come papero, un ladro d'acqua come « plava », ossia anitra tuffatrice; un ladro di miele come grande zanzara; un ladro di latte come corvo; un ladro di succo di frutta come cane; un ladro di burro fine come « ichnevmon », ossia come donnola.
... Spiriti vitali che sono schiavi della sensualità, avranno nei futuri corpi una sensibilità corporea assai più fine e maggiore, e ciò nella misura in cui hanno goduto piaceri proibiti, in modo che ora possano soffrire dolori proporzionati.
Ed essi, a causa della loro follia, verranno condannati a dolori sempre più forti, e in forme considerate abominevoli su questa terra, ogni volta che ripeteranno le loro azioni peccaminose. Anzitutto faranno esperienza dell'angoscia di morte in Tamisra (ossia nell'estrema oscurità e in altre dimore dell'orrore), in Asipatravana (ossia nelle foreste con foglie di spada), e in diversi luoghi dove vengono schiacciati e dilaniati.
Molteplici torture li aspettano: verranno mutilati da corvi e civette, inghiottiranno pani bollenti, cammineranno su sabbia rovente, e subiranno tutte le torture come se fossero ceramica da cuocere nel forno.
Dovranno assumere le forme di animali sempre miserabili, alternativamente torturati da estremo freddo e da insopportabile calore, ed essere assaliti dalle più svariate forme di spavento.
Più di una volta dovranno stare racchiusi in diversi corpi materni, e dopo nascite dolorosissime essere condannati a carcere duro ed a lavoro servile presso creature che sono loro simili.
Poi seguiranno separazione da familiari e amici, permanenza forzata presso non credenti, faticato guadagno e rovinosa svalutazione del denaro; amicizie appena stabilite verranno sostituite da inimicizie definitive.
Poi vecchiaia senza alcun sostegno, malattie accompagnate da rimorsi di coscienza e da torture senza numero, ed infine l'inesorabile morte.
Dall'intenzione e dallo stato d'animo, con cui l'uomo esercita le sue azioni religiose e morali in questa vita, dipenderà in quella futura la ricompensa, per mezzo di un corpo dotato delle caratteristiche corrispondenti.
(Codice di Manu, e. 12, nn. 53-81, in Menus Verordnungen, Verlag des Industrie, Weimar 1797, pp. 449-454).
(3) Nomi di caste inferiori.
Il divino che è al fondo di noi stessi
In verità questo grande, increato atman è fatto di coscienza nelle percezioni dei sensi. Quell'etereo spazio che è all'interno del cuore, è ivi che Egli dimora, Signore del tutto, sovrano del tutto, padrone del tutto.
... È lui che i brahmana cercano di conoscere mediante lo studio dei Veda, mediante il sacrificio, mediante l'elemosina, mediante l'ascesi e l'astinenza: è soltanto conoscendolo che si diventa un vero asceta; è verso di lui che tendono tutti coloro che cercano un asilo sicuro nella vita errante.
(Brad-aranyaka-upanisad, let. IV, c. 4, n. 22, in Upanisad antiche e medie, p. 143).
Chi ha trovato e riconosciuto l'atman, in questo sviluppo di membra penetrato [il nostro corpo], costui diventa creatore, del Tutto autore, a lui appartiene il mondo, egli è il mondo stesso.
Finché quaggiù noi stiamo, dobbiamo apprendere questo: altrimenti, ignoranza ad estrema rovina ci conduce; coloro che già conoscono immortali divengono, quanto agli altri, sofferenza è il loro destino.
Allorché si è contemplato lo àtman, quel Dio, chiaramente Signore del passato e del futuro, non più da lui ormai si sfugge.
(Ibidem, let. IV, c. 4, nn. 13-15, pp. 141-142).
Liberazione dal « desiderio » e dal peccato
Colui che è attaccato, accompagnato dal suo karman [azione], va laddove la mente desiosa lo sospinge; qualunque cosa abbia potuto compiere, da quel mondo di nuovo ritorna a questo mondo, all'azione.
Così è per colui il quale desidera. Quanto a colui il quale non desidera, che è senza desiderio, che si è liberato dal desiderio, che ha raggiunto l'oggetto del suo desiderio [perché] altro non desidera che lo atman, i suoi spiriti vitali non gli sfuggono [per dirigersi verso altre regioni]: non essendo egli altro che brahman, egli penetra nel brahman.
Allorché tutti si dileguano, i desideri che ei portava in cuore, allora il mortale diventa immortale ed ancora quaggiù fruisce del brahman.
(Ibidem, let. IV, c .4, nn. 6-7, pp. 139-140).
Un peccatore può essere sciolto dal suo peccato mediante libera confessione, pentimento, devozione e mediante lettura degli Scritti [sacri]; oppure, qualora non sia in grado di compiere altre pratiche religiose, mediante l'elemosina.
Come un serpente si libera dalla propria pelle, così, allo stesso modo, il peccatore deve liberarsi dalla propria colpevolezza, facendo sinceramente e volontariamente la confessione del suo peccato.
E il suo spirito di vita, contaminato dall'azione malvagia, ne sarà purificato nella misura in cui sinceramente la detesta.
Se egli davvero si pente di aver commesso un peccato, ne sarà anche liberato. Se egli semplicemente si limita a dire: « Non voglio più peccare in questo modo », senza poi guardarsi seriamente da ulteriori peccati, non c'è per lui alcuna speranza di perdono.
(Codice di Manu, c. 11, pp. 228-231, in Menus Verordnungen, cit., p. 435).
Consigli morali induisti
Un maestro del Veda è l'immagine di Dio; un padre naturale è l'immagine del Brahma; una madre è l'immagine della terra; un fratello maggiore retto l'immagine dell'anima.
Perciò un padre spirituale e un padre naturale, una madre e un fratello maggiore non possono venir trattati senza rispetto, per lo meno da parte di un bramino, dovesse anche il discepolo aver subìto le più grandi offese.
I dolori e le preoccupazioni che un padre e una madre sopportano nel generare e nell'educare i propri figli, neppure in cent'anni possono venire ricompensati.
(Ibidem, c. 2, nn. 225-227, p. 66).
Le donne sono per natura portate, in questo mondo, a sedurre gli uomini. Perciò un uomo saggio sta sempre all'erta quando si trova in compagnia delle donne.
In verità, una donnaccia può in questa vita distogliere dal retto sentiero non solo lo stolto, ma anche l'uomo saggio; mentre gli manifesta la sua sottomissione, può infiammarlo di desiderio e di voglia.(Ibidem, c. 2, nn. 213-214, p. 64).
Occorre via via raccogliere una provvista di atti virtuosi e non aver causato dolore a creatura alcuna, onde farsi un amico per la vita futura; proprio così come la saggia formica a poco a poco raccoglie il suo cumulo.
Nel viaggio, infatti, verso il mondo futuro, né padre, né madre, né moglie, né figlio, né parenti ci saranno accanto; solo la virtù non si staccherà da noi!
Ogni uomo nasce come un essere singolo, e come singolo muore; come singolo riceve il premio per le azioni buone, e come singolo viene punito per quelle cattive.
Quando uno abbandona a terra il proprio corpo come un pezzo di legno o di argilla, i suoi parenti distolgono lo sguardo e si allontanano; la sua virtù invece accompagna la sua anima. Non cessare dunque di raccogliere pazientemente i meriti della virtù; così potrai contare su di un compagno fedele. Sotto la guida della virtù dovrai infatti attraversare l'oscurità; e, ahimé, com'è difficile il farlo!
(Ibidem, c. 4, nn. 238-242, p. 158).
Immoralità materialista
Le persone nate con natura demoniaca... dicono che questo mondo non ha niente di reale, che esso non ha base, che è senza dio, esso non è sorto da un vicendevole concatenamento di cause ed effetti, e non è altro che il prodotto del piacere. Basandosi su questo loro modo di vedere, stolti, perdono le loro anime, e, crudeli nelle loro azioni, nascono malvagi per la rovina del mondo.
Si abbandonano alla libidine che mai non si sazia, pieni di frode, di orgoglio e di passioni, e colle loro menti ottenebrate, formandosi falsi concetti, vivono praticando opere impure.
Il loro pensiero non conosce limite, e dà frutti letali, loro supremo pensiero è il godimento dei piaceri, perché essi sono sicuri che questo è tutto quello che è concesso all'uomo.
(Bhagavad-Gita, let. XVI, nn. 7-11, Carabba, Lanciano 1922, pp. 136-137).
La via dell'amore
Chi devoto, con cuore puro, frena con fermezza se stesso, abbandona gli oggetti dei sensi, come suoni, ecc., rigetta da sé amore e odio, chi vive lontano dal mondo, di poco si ciba, ha domato la parola, il corpo e il pensiero, tutto dedito all'esercizio della meditazione, cerca sempre rifugio nella indifferenza al mondo,
chi liberandosi dall'egoismo, dalla violenza, dalla superbia, dall'amore, dall'ira e dall'orgoglio, si mostra disinteressato e calmo, diventa atto ad entrare in Brahma.
Venuto in Brahma, con lo spirito sereno, non più desidera né si addolora, equanime verso tutti gli esseri, egli ottiene il supremo amore di me.
Coll'amore egli mi conosce quale e quanto io sono veramente, e avendomi conosciuto veramente, entra immediatamente in me.
(Ibidem, let. XVIII, nn. 51-55, pp. 155-156).
Tu mi sei sempre stato caro per la fermezza della tua mente e io ti dirò il tuo bene.
Metti il tuo cuore in me, poni in me il tuo amore, a me sacrifica, a me rendi onore, e mi avrai. Io ti prometto il vero perché mi sei caro.Lascia ogni altro dovere, in me solo cerca il tuo rifugio, io ti libererò da ogni peccato.
... Tu non devi rivelar questo (che io ti dico), né a chi non si esercita nell'ascesi, né a chi non ha amore per me, né a chi non ti vuol udire, né a chi mi calunnia.
Chi invece rivela questo supremo arcano a chi mi ama, riponendo in me un grande amore, entrerà indubbiamente in me.
(Ibidem, let. XVIII, nn. 64-68, pp. 157-158).