Credere5 - Il Mondo di Aquila e Priscilla

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INDUISMO

Sotto il nome d'induismo s'intende indicare la religione della nazione indiana, formatasi per un processo millenario di so­vrapposizione e di fusione di tradizioni religiose diverse, In esso coesistono infatti dottrine e pratiche differenti, e persino contraddittorie: monoteismo, panteismo e politeismo, ad esem­pio, vi hanno uguale diritto di cittadinanza. Ciò è dovuto, ol­tre che alla mancanza di un « fondatore » capace di dargli un'im­pronta personale e unitaria, anche alla particolare mentalità di questo popolo, poco amante del rigore logico e della sintesi, ma ricco d'intuizione e di fantasia, naturalmente portato a tol­lerare tutte le espressioni del pensiero.
L'induismo possiede un patrimonio letterario vastissimo e di grande interesse, per lo più anonimo, nel quale si distinguono testi più antichi, i Veda, e testi più recenti, le Upanishad, e le opere successive, quali il Ramayana, il Mahabharata e il Codice di Manu.
Per chiarezza di esposizione, distingueremo nell'induismo tre grandi momenti: il vedismo, ossia la forma più antica, che si rifà ai Veda; il brahmanesimo, nato dalla riflessione dei sa­cerdoti, detti brahmani o bramini, che si rifà alle Upanishad e ai testi sacri posteriori, e infine l'insieme delle credenze e dei riti praticati dalla maggioranza del popolo indiano, che chia­meremo induisrno popolare.

1. Vedismo
Esso emerge dalla religione di natura degli ari, popolazione immigrata in India verso la metà dei_ secondo millennio avanti Cristo. 1 suoi libri sacri sono un insieme di scritti diversi per stile, contenuto e tempo di composizione. Secondo l'ipotesi più probabile, essi risalgono al periodo che va dal 1500 al 500 avanti Cristo.
Ciò che maggiormente colpisce il lettore occidentale è la varietà del loro contenuto, che appare come un coacervo di ele­menti i più disparati, come un insieme disordinato di rozzezza e di poesia, di formule magiche e di elevate norme morali, e dove, accanto a una grande quantità di dèi e di spiriti, appaio­no alcune timide intuizioni monoteistiche. Da tutto questo materiale è possibile tuttavia ricavare alcune linee generali di pen­siero che ci permettono di farci un'idea del vedismo.

a) La Divinità


I Veda conoscono 33 Divinità diverse: 11 per il cielo, 11 per l'aria e 11 per la terra, la cui origine risale alle preesistenti religioni di natura. Alcune di tali Divinità emergono per im­portanza: ricorderemo Aggi, che è il fuoco ed è il dio dei sa­cerdoti, perché con esso si compiono i sacrifici; indra, che è il dio dell'aria, al cui seguito è Vayu, dio del vento e i Maruts, gli spiriti della tempesta. Tra gli dèi celesti, possiamo ricordare Vishnu, che « sorregge il cielo e puntella la terra »- Surya, il dio del sole, e Ushas, che è l'aurora, e alla quale sono dedicati i più bei versi del Rig-Veda. Prajapati è il creatore del mondo, ma è ben lontano dall'essere inteso come il Dio delle religioni monoteistiche. Solo Varuua possiede dei caratteri che si avvicinano a quelli della Divinità, quale è concepita da noi. Egli conosce infatti tut­to ciò che accade al di sopra e al di sotto del cielo; è l'or­dinatore del mondo e il « signore di se stesso », ed è anche colui verso il quale tende il cuore dell'uomo, desideroso d'instaurare con la Divinità un rapporto personale non solo di timore, ma anche di stima e di affettuosa fiducia
Se è vero che emerge qua e là nei Veda l'aspirazione verso un Dio personale, « unico dio tra gli dèi », è anche vero che si tratta solo di intuizioni momentanee, di rari sprazzi di luce. Nell’insieme, l'idea vedica del divino è ancora vaga e im­precisa, dominata per lo più da un primitivo politeismo.
Grande importanza rivestono nella religione vedica il sa­crificio e il sacerdozio. Di fronte al rito sacrificale, che si pre­senta in forme numerose e diverse, la Divinità sembra conser­vare una certa libertà nel vedismo più antico. Col passare del tempo, però, il sacrificio viene ad assumere un'importanza sempre più rilevante, tanto da diventare un vero atto magico, che co­stringe il soprannaturale a piegarsi ai voleri dell'uomo. La pa­rola sacrificale (brahama) è considerata come la chiave che tutto apre, la realtà che tutto ottiene.
Di qui prende le mosse la speculazione brahmanica per af­fermare che proprio in tale parola si ha la manifestazione più alta dell'Essere, si ha la realtà che racchiude in sé quell'Ener­gia sacra (Brahama) che tutto spiega e tutto muove. Ma con questi concetti si esce dal vedismo per entrare nel pensiero brahmanico.

b) L'uomo


Per il vedisimo, l'uomo è fatto di corpo e di spirito. Se c'è una certezza nel pensiero indiano è quella dell'esistenza dello spirito. Un indù potrebbe dubitare della realtà della materia, ma non di quella dello spirito, la cui esistenza rimane uno dei cardini fondamentali dell'induismo. Nel vedismo non è ancora presente la credenza, poi tanto radicata, della trasmigrazione dell'anima da un corpo all'altro attraverso successive rinascite. L'anima dell'uomo è immortale, e alla fine della vita riceve un premio o un castigo a seconda dei meriti.

2. Brahmanesimo

Per brahmanesimo s'intende lo sviluppo storico della reli­gione vedica. Esso deve il suo nome alla casta dei brahmani, sacerdoti e asceti che hanno dato luogo, a partire dal 500 avan­ti Cristo, a un vasto rinnovamento religioso, sviluppatosi in due fondamentali direzioni: una ritualistico-sacrificale e una reli­gioso-filosofica.
La corrente ritualistica pone l'accento sul valore dei riti e dei sacrifici quali strumenti essenziali di salvezza. 1J il sacrificio che dà il senso più vero e più profondo alla vita, poiché chi lo compie si identifica con esso, ottiene la liberazione dai peccati, e viene assimilato alla stessa Divinità, diventando immortale. Da questa visione magica del sacrificio deriva tutta una teoria e una precettistica sui diversi riti sacrificali, sul loro valore e sulle loro modalità di esecuzione, per noi priva di ogni inte­resse.
La corrente filosofica invece si presenta ricca di contenuto, impegnata com'è ad affrontare il problema del divino e della possibilità di attingerlo, non con mezzi esterni, ma con la ricer­ca interiore.

a) Il Brahma


Oggetto primo della riflessione brahmanica è l'Uno, il Tut­to, l'Assoluto, il Brahma o brahman. Già nel Rig-Veda si tro­va un accenno all'« Uno », principio esplicativo impersonale di tutte le cose. Ora esso prende il nome di Brahma. « Tutto quanto esiste è Brahma », affermano le Upanishad: esso « era all'inizio tutto questo universo » .
Ciò significa che il Brahma non è un Dio personale distinto dal mondo, ma è come l'anima del mondo stesso, ad esso pre­esistente e in esso presente e operante; è l'Essere « illimitato », « non nato » e « imperscrutabile » che è al fondo di ogni cosa come la sua vera essenza. Tutto da lui viene e tutto a lui ri­torna in un eterno nascere e morire di realtà, emanazioni dell'uni­co ed eterno Brahma. Esso è presente nelle cose così come una manciata di sale è presente in una brocca d'acqua. E come il sale dà il sapore a tutta l'acqua, così il Brahma dà la realtà, dà l'essere a tutte le cose di questo mondo visibile. Il mondo infatti non è se non il Brahma nella sua « forma mate­riale », ossia, in sostanza, « null'altro è che pensiero »
Come si vede, si tratta di una concezione rigorosamente pan­teista e monista, perché tutto è ricondotto all'unica realtà del Brahma, tanto che l'essenza stessa del mondo sensibile è di na­tura spirituale.Tuttavia, se la riflessione filosofica sfocia nel  vita religiosa lo supera spesso per uno slancio del cuore verso un Dio unico e personale, come vedremo parlando della Bhakti.

b) L'uomo


Se tutto ciò che esiste è spirito, è Brahma, sarà spirito e Brahma anche l'uomo nella sua realtà più vera, quella interio­re. Una delle verità fondamentali dell'induismo è infatti l'iden­tità esistente tra lo spirito umano, detto atman, e il Brahma universale. L'atman, che è il « Sé che è dentro al mio cuore », ossia la radice più profonda della mia personalità, non è in realtà che il Brahma divenuto cosciente di se stesso. L'anima dell'uomo è dunque una realtà increata e divina, è una scintilla del grande fuoco del Brahma costretta nella prigione di un cor­po materiale.
Se l'uomo si lascia vincere dalle passioni e dai desideri dei sensi, e conduce una vita di peccato, dopo la morte non potrà li­berarsi da questa prigione ma, per espiare il male commesso, dovrà rinascere in una vita successiva, assumendo il corpo di un uomo di condizione inferiore o addirittura di un animale. La letteratura induista conosce una quantità di rinascite disonore­voli diverse, dipendenti dai diversi tipi di peccato commessi dorante la vita .
Se invece l'uomo vive rettamente e, attraverso lo studio dei Veda, le opere di bene, le rinunce dell'ascetismo e l'uso di alcune tecniche di concentrazione, di cui quella yoga è la più conosciuta, arriva a percepire la natura divina della pro­pria personalità profonda, allora avviene la sua trasformazione interiore: egli prende coscienza di essere il Brahma, sa « che a lui appartiene il mondo », anzi che egli « è il mondo stesso ». Così facendo diviene immortale perché, libero dai legami della materia, ritorna al Brahma e in lui si perde per sempre. Come una goccia di pioggia, tornando in seno al mare, viene in esso riassorbila e diventa mare essa stessa, così è del­l'anima che ritorna al Brahma.
Condizione necessaria per prendere coscienza della propria essenziale identità col Brahma, è il distacco dall'azione (kar­mau) e, prima ancora, quello da ogni desiderio di beni mate­riali» . Quando ogni desiderio terreno sia stato sopito. « allora il mortale diventa immortale e ancora quaggiù fruisce del brahman. Scopo della vita è dunque quello di liberarsi dai legami terreni per attingere il Brahma nella profondità più intima di noi stessi, raggiungendo così la pace beatificante in questo mondo, e la liberazione dalla legge delle rinascite dopo la morte.
Naturalmente, il traguardo del distacco dai beni e dai desi­deri terreni non s'improvvisa. Per arrivarvi è necessario partire da una vita retta, vissuta secondo giustizia, nella quale si cer­chi anzitutto di evitare il peccato e, se si è caduti nella col­pa, di liberarsene al più presto col pentimento sincero e l'umi­le confessione. Il Codice di Manu (circa III secolo a.C.), che è la più fa­mosa raccolta di precetti morali dell'induismo, insiste sia nel raccomandare la fuga dal peccato perché, vi si dice. « ogni azio­ne malvagia, una volta commessa, ha inevitabilmente delle con­seguenze per l'autore », sia nell'inculcare l'esercizio delle vir­tù. Tra di esse, ricorderemo il rispetto dovuto ai genitori e ai superiori, tanto sentito dai popoli dell'antico Oriente, l'e­sercizio della custodia dei sensi e quello di una pazienza benevola e misericordiosa verso tutti gli uomini .
Siamo di fronte ad espressioni di un nobile ideale morale, che ha dei punti di contatto con quello evangelico. Così, di sa­pore evangelico ci appare l'invito a non accumulare beni mate­riali, ma ricchezze spirituali per la vita ultraterrena, e ad attendere serenamente la morte, e con essa il premio per il bene operato.

c) Il movimento della Bhakti


Un posto di particolare rilievo nella storia dell'induismo spetta al movimento religioso, detto della Bhakti (amore, de­vozione), per l'influenza positiva che ha esercitato sulla spiri­tualità indiana. Gandhi, ad esempio, la considerava come l'e­spressione dell'induismo più vicina al suo spirito. Il testo sacro di questa corrente è la Bhagavad-Gita , ossia il « Canto del Bea­to », che fa parte di un lunghissimo poema epico, il Mahabharata, vera enciclopedia dell'induismo, risalente circa al quarto secolo avanti Cristo.
La Divinità che la Gita ci presenta, Bhagavad, ossia il Bea­to, non è più il Brahma impersonale che abbiamo imparato a conoscere, ma è un essere personale. è Krishna, umanizzazione di Vishnu, inteso come principio e sovrano di tutto. « lo so­no il padre di questo mondo - afferma Bhagavad -, io ne sono la madre, l'ordinatore, l'antenato. Io sono la meta. l'alimento, il Signore, il testimonio, la casa, il rifugio, l'amico, la nascita, la morte, la patria, il tesoro, il seme indistruttibile».
L'autore della Gita è uno spirito acuto e vede chiaramente il pericolo di dissoluzione morale insito in una mentalità mate­rialista. Per superarla, esorta i suoi lettori a una religio­sità autentica, fatta di « devozione » intima e profonda a Dio, di offerta a lui di tutta la vita, perché lui solo è degno di esserne lo scopo ". Il carattere spiccatamente interiore del pensiero bhakti appare anche dall'importanza data alla « fede » », os­sia alla conoscenza amorosa della Divinità .
E per la fede infatti, è per l'intima unione del nostro spiri­to col divino, che fino da questa vita possiamo attingerlo ed entrare in rapporto con lui. Non si tratta ovviamente di una fe­de puramente intellettuale, ma di un'adesione alla Divinità di tutto il nostro essere, che trova nell'amore totale e incondiziona­to la sua più alta espressione.
Si ha qui il superamento della religiosità egocentrica e au­tosufficiente dei bramini, con una religiosità fondata sulla fi­ducia e sull'amore in un Dio buono e personale, per tanti aspet­ti vicina alla religiosità cristiana.
Il grande influsso esercitato dalla Bhakti ha consentito che si conservasse vivo nel brahmanesimo, accanto al prevalente in­dirizzo panteistico, anche un filone di pensiero monoteista, giunto fino ai nostri giorni.

3. Induismo popolare

Per induismo popolare s'intende la religione praticata dalla grande maggioranza del popolo indiano. Essa, pur avendo su­bìto l'influenza della riflessione brahmanica, ha conservato mol­ti elementi della tradizione precedente, primo fra tutti il grande numero di divinità del panteon vedico, anche se chiamate con altri nomi. Tra loro spiccano per importanza Brahma, il Creatore, Vishnu, il Conservatore, che prende il posto del ve­dico Varuna ed è il dio maggiormente venerato, e Siva, il Di­struttore. Ad essi fanno riscontro tre divinità femminili, spose del dio e madri dei loro figli: a Brahma corrisponde Sarasvati, a Vishnu Laksmi e a Siva Sakti, detta anche Kalì, la « nera », cui è consacrata la città di Calcutta.
Per l'induista colto, queste divinità che prega e onora non sono che diversi modi di essere di un'unica Divinità, il Brahma impersonale il quale, per operare nel mondo e compiervi determinate azioni, assume diversi « corpi spirituali » adatti al­le azioni corrispondenti, divenendo a volta a volta questo o quel dio particolare.
Ma, accanto a questa visione delle cose, esiste, specie tra le masse più incolte, un vero e proprio politeismo. che si nutre del culto di numerosi simulacri, ritenuti i corpi visibili de­gli dèi. Essi sono ospitati in templi sontuosi e serviti da una numerosa schiera di sacerdoti i quali li svegliano al mattino, fanno loro il bagno, li vestono, li nutrono e la sera li mettono a letto.
La vita e le imprese di questi dèi, inoltre, non sono sempre molto esemplari, così come il loro culto non è sempre immu­ne da aspetti ripugnanti. Quello di Siva, ad esempio, e di Kalì, si accompagnava un tempo a sacrifici umani, e ancor oggi com­porta pratiche moralmente ambigue. I riti e i sacrifici sono per lo più intesi come azioni magiche, né mancano esempi di fana­tismo religioso e di usanze aberranti.
Basti pensare all'uso, un tempo frequente e vietato dalla legge solo dopo l'occupazione britannica, di sacrificare la ve­dova di un defunto durante i funerali del marito, o al fanati­smo di quei devoti che nelle processioni si gettano sotto le ruo­te dei carri sacri. Basti pensare ancora ad alcune crudeli pra­tiche di fachirismo, o alla proibizione di nutrirsi di carne di vacca, animale sacro agli dèi, in un Paese cronicamente afflitto dalla fame.
Né si può dimenticare che l'induismo ha fornito la giu­stificazione della divisione della società in rigide classi o « ca­ste », con al vertice la casta sacerdotale e alla base una massa di uomini, gli intoccabili, privi di ogni dignità e diritto.
Non è facile dare una valutazione d'insieme di un fenome­no così vasto e vario com'è l'induismo, mai pervenuto a una sintesi di pensiero coerente e unitaria.
Per quanto riguarda il problema di Dio, la mancanza di sintesi ha fatto sì che convivessero in esso differenti concezioni del divino. Dalla speculazione brahmanica, orientata in senso panteista, all'amorosa devozione di un Dio unico e personale, propria della Bhakti, fino alla religiosità popolare, praticamente politeista, l'induismo ammette tutte le forme possibili di rap­presentazione della Divinità. Resta come dato comune l'interesse profondo verso l'Assoluto, che fa di questo popolo uno dei più religiosi del mondo. L'induismo è anche la religione dello spirito e della sua af­fermazione sulla materia, è la religione della vita interiore an­teposta all'attività esterna. E’ sempre a quel mondo intimo di pensieri, di desideri, di speranze, di gioie e di dolori, che costi­tuisce la nostra più vera identità, che è rivolto l'interesse della religione indiana, nella certezza che l'uomo, penetrando in se stesso, possa cogliere l'elemento divino che è al fondo del pro­prio essere e così liberarsi da ogni gravare della materia.
L'esaltazione dello spirito viene fatta però a scapito del mondo sensibile. Per l'induismo, la materia è solo apparen­za, il corpo è una prigione, la vita terrena una condanna. Il mondo visibile non è, come per i cristiani, opera di Dio e ri­flesso della sua bontà, ma pura vanità e illusione, è un male da cui bisogna liberarsi. Ed è questa, con ogni probabilità, la radi­ce ultima dell'atavico disinteresse del popolo indiano verso i valori terreni, siano essi di carattere scientifico, economico o so­ciale, e della conseguente situazione di grave sottosviluppo pro­trattasi fino ai nostri giorni.
Tuttavia per noi occidentali, immersi in un clima di pesante materialismo, la ricerca appassionata dell'Assoluto e il primato accordato ai valori dello spirito, propri dell'induismo, può essere motivo di un ripensamento critico nei confronti di una civiltà come la nostra, che sembra aver rifiutato non solo Cristo, ma ogni valore che non sia l'utile immediato e il godimento sensibile.

Testi e documenti

Le intuizioni monoteistiche del vedismo
Chi sta fermo, chi si muove e chi va tortuosamente, chi si nasconde, chi se la svigna, ciò che due sedendo insieme deliberano, que­sto sa, come terzo, il re Varuna.
Questa terra è del re Varuna e quell'alto cielo dai lontani confi­ni; e i due oceani [il celeste e il terrestre] sono le cavità del ven­tre di Varuna, ed egli è nascosto in questa poca acqua.
chi riuscisse a passare oltre il cielo dall'altra parte, non sareb­be libero dal re Varuna. Le spie di lui dal cielo vengono qua, con mille occhi guardano da una parte all'altra della terra.
Tutto il re Varuna vede, ciò che è tra i due semimondi [cielo e ter­ra] e ciò che è al di là. Da lui sono numerati i battiti d'occhio de­gli uomini; egli conta, come un giocatore i dadi, [tutte] queste cose.
(Atharva-Veda, lib. IV, c. 16, in Inni dell'Atharva-Veda, vol. II, Zanichelli, Bologna 1933, pp. 98-99).

Sagge sono le creature mercé la grandezza di lui, che ha separa­tamente puntellato i due vasti semimondi [cielo e terra]. Egli ha spinto in su l'alta e grande volta celeste, egli veramente [ha spinto in su] l'astro [il sole] e ha disteso la terra.
questo con me stesso io dico: « Quando potrò essere presso di Varuna? Quale mia offerta gusterà egli senza collera? Quando con sereno animo contemplerò la sua benignità? ».
Domando di questa mia colpa, o Varuna, con desiderio di cono­scerla: mi reco dai sapienti per interrogarli. Una stessa cosa anche i savi mi hanno detto: « Questo Varuna è certo in collera con te ». Quale è stata, o Varuna, la colpa maggiore, per cui vuoi uccidere il tuo inneggiatore, il tuo amico? Rivelamela, o difficile a ingannar­si, o signore di te stesso. Che, mondo di colpa, io ti possa presto riconciliare mediante l'omaggio.
Le male opere dei padri sciogli da noi e quelle che noi abbiamo commesse da noi stessi.
(Rig-Veda, lib. VII, c. 86, in Inni del Rig-Veda, vol. II, Zanichel­li, Bologna 1931, pp. 79-80).
[Quel] germe d'oro sorse nel principio; appena nato fu l'unico si­gnore di ciò che esiste. Egli sostenne la terra e il cielo: a qual dio dobbiamo fare omaggio con l'oblazione?
Colui che dà il respiro, che dà il vigore, il comando del quale tut­ti gli dèi eseguono; l'ombra del quale è l'immortalità e la morte: a qual dio dobbiamo fare omaggio con l'oblazione?
Colui che per la sua grandezza è divenuto unico re di ciò che re­spira e chiude gli occhi, del mondo; che è padrone del bipede e del quadrupede: a qual dio dobbiamo fare omaggio con l'oblazione? Colui per mezzo della grandezza del quale questi [monti] nevosi [esistono] e dicesi [che c'è] il mare insieme con la Rasa (1); le due braccia del quale sono questi punti cardinali: a qual dio dobbiamo fare omaggio con l'oblazione?
Colui dal quale il cielo possente e la terra furono fissati, dal quale fu stabilita la luce e la volta celeste; il quale nello spazio mediano fu il misuratore dell'atmosfera: a qual dio dobbiamo fare omaggio con l'oblazione?
Colui al quale le due schiere [il cielo e la terra] sostenute dalla sua protezione, guardano tremando nell'animo; nel quale [sostenuto] risplende il sole quando spunta: a qual dio dobbiamo fare omag­gio con l'oblazione?
Quando vennero le grandi acque portando in sé il tutto [come] germe, generando Agni, di là egli sorse, l'unico spirito vitale degli dèi: a qual dio dobbiamo fare omaggio con l'oblazione?
Colui che per la sua grandezza abbracciò con lo sguardo le acque, re­canti in sé la capacità creativa, generanti il sacrificio; il quale fu uni­co dio tra gli dèi: a qual dio dobbiamo fare omaggio con l'oblazione?
(Rig-Veda, lib. X, c. 121, Inno al dio ignoto, in Inni del Rig-Veda, vol. II, pp. 164-165).
Allora non c'era il non essere, non c'era l'essere; non c'era l'atmo­sfera, né il cielo al di sopra. Che cosa si muoveva? Dove? Sotto la protezione di chi? Che cosa era l'acqua [del mare] inscanda­gliabile, profonda?
Allora non c'era la morte, né l'immortalità; non c'era il contrasse­gno della notte e del giorno. Senza [produr] vento respirava per propria forza quell'Uno: oltre di lui non c'era nient'altro. Tenebra ricoperta da tenebra era in principio; tutto questo uni­verso era un ondeggiamento indistinto. Quel principio vitale che era serrato dal vuoto, generò se stesso [come] l'Uno mediante la potenza del proprio calore.
(Rig-Veda, lib. X, e. 129, in Inni del Rig-Veda, vol. II, p. 170).
(1) fiume mitologico che circonda la terra.

Il Brahma
Brahaman, invero, era all'inizio tutto questo universo. Esso solo esisteva, illimitato all'est, illimitato al sud, illimitato al nord, illi­mitato all'ovest, illimitato di sopra, illimitato di sotto, infinito in ogni direzione. Per costui non ci sono limiti come est, ovest, ecce­tera: non esiste traverso, né sopra, né sotto. Questo supremo Sé è immisurabile, non nato, imperscrutabile, impensabile ed è essenzia­to di etereo spazio. Allorché Tutto viene distrutto [alla fine di ogni evo cosmico], Esso solo veglia: [indi], a partire da questo etereo spazio, esso risveglia questo [mondo], che null'altro è che pen­siero; da lui questo universo è meditato ed in lui viene riassorbito.
(Maitry-upanisad, [o Maitraiyaniya-upanisad], c. 5, n. 17, in Upani­sad antiche e medie, Boringhieri, Torino 1968, p. 579).

« Butta questo sale nell'acqua e ritorna a me domani mattina ». Svetaketu obbedì al padre. Allora il padre gli disse: « Portami ora quel sale che tu ieri sera hai gettato nell'acqua ». Svetaketu guardò nell'acqua e non lo vide più. Si era sciolto. « Assapora un po' di quell'acqua prendendola alla superficie. Co­m'è? ». « È salata ». « Assapora un po' di quell'acqua prendendola in basso. Com'è? ». « È salata ». « Assapora ancora e vieni da me ». Il figlio gli obbedì e gli disse: « t sempre lo stesso ». Allora il pa­dre disse a Svetaketu: « Così pure, o figlio mio, tu non afferri l'es­sere, e pertanto esso è presente ivi [ove tu sei]. Tutto quanto esiste è animato da questa essenza sottile; essa è l'unica realtà, essa è l'àtman (2). E tu stesso, o Svetaketu, lo sei ».
(Chandogya-upanisad, let. VI, c. 13, nn. 1-3, in Upanisad antiche e medie, pp. 307-308).

Spirito puro il cui corpo è soffio di vita, la cui forma è luce, il cui concetto è verità, la cui essenza è spazio, sorgente di ogni attività, di ogni desiderio, di ogni percezione di odore o di gusto, abbrac­ciante quanto vi è, muto, indifferente.
... Sorgente di ogni attività, di ogni desiderio, di tutte le percezio­ni di odore e di gusto, abbracciante tutto ciò che è, muto, indiffe­rente, è questo Sé [Carnali], che è dentro il mio cuore. Questo è lo stesso brahman. Colui il quale dice a se stesso: « Uscendo da que­sto mondo in lui trapasserò », in verità non vi è per lui alcun dub­bio di essere nel giusto.
(Ibidem, let. III, c. 14, nn. 2, 4, pp. 249-250).
(2) Atman è spesso sinonimo di brahman.

Rinascite di condanna
Voglio ora insegnarvi con precisione ed ordine quali peccati deve aver commesso uno spirito di vita per essere esiliato quaggiù in questo o quel corpo.
I peccatori di prima categoria, dopo essere passati per lunghi an­ni attraverso gli orribili luoghi del tormento, al termine di questo periodo, per espiare gli ultimi resti del peccato, vengono condan­nati alle seguenti reincarnazioni.
L'uccisore di un bramino, a seconda delle diverse circostanze del crimine, abiterà il corpo di un cane, o di un cinghiale, o di un asi­no, o di un cammello, o di un toro, o di una capra, o di un mon­tone, o di un cervo, o di un uccello, oppure di un « candala » o di un « puccasa » (3)
Un sacerdote che ha gustato bevande inebrianti assumerà la forma di un verme, o di un insetto, o di un tarlo, o di una mosca che si nutre di lordure, o di qualche fiera.
Chi ruba dell'oro a un sacerdote finirà mille volte nel corpo di ra­gni, serpenti e camaleonti, o di coccodrilli e altri mostri acquatici, o di sadici e sanguinosi demoni.
Chi viola il letto del padre naturale o spirituale vagherà cento vol­te sotto forma di erbe, cespugli, piante rampicanti e liane, di avvol­toi e di altri uccelli carnivori, di leoni e di altre fiere dai denti aguz­zi, o di tigre ed altre bestie feroci.
... Chi ha avuto contatti con uomini abbietti, oppure è stato le­gato in modo punibile con la donna altrui, o ha sottratto cose comu­ni a un sacerdote, verrà trasformato in uno spirito chiamato Bra­maracsiasa.
Un criminale che per avidità ha rubato rubini od altre gemme, perle, coralli o altri oggetti preziosi, di cui esistono tante specie, nascerà nella casta degli orefici o tra gli uccelli che vengono chia­mati « hemacaras », ossia produttori di oro.
Chi ruba frumento non trebbiato rinascerà come topo; il ladro di bronzo, come papero, un ladro d'acqua come « plava », ossia ani­tra tuffatrice; un ladro di miele come grande zanzara; un ladro di latte come corvo; un ladro di succo di frutta come cane; un ladro di burro fine come « ichnevmon », ossia come donnola.
... Spiriti vitali che sono schiavi della sensualità, avranno nei futuri corpi una sensibilità corporea assai più fine e maggiore, e ciò nella misura in cui hanno goduto piaceri proibiti, in modo che ora pos­sano soffrire dolori proporzionati.
Ed essi, a causa della loro follia, verranno condannati a dolori sempre più forti, e in forme considerate abominevoli su questa ter­ra, ogni volta che ripeteranno le loro azioni peccaminose. Anzitutto faranno esperienza dell'angoscia di morte in Tamisra (ossia nell'estrema oscurità e in altre dimore dell'orrore), in Asi­patravana (ossia nelle foreste con foglie di spada), e in diversi luoghi dove vengono schiacciati e dilaniati.
Molteplici torture li aspettano: verranno mutilati da corvi e civette, inghiottiranno pani bollenti, cammineranno su sabbia rovente, e subiranno tutte le torture come se fossero ceramica da cuocere nel forno.
Dovranno assumere le forme di animali sempre miserabili, alter­nativamente torturati da estremo freddo e da insopportabile calo­re, ed essere assaliti dalle più svariate forme di spavento.
Più di una volta dovranno stare racchiusi in diversi corpi mater­ni, e dopo nascite dolorosissime essere condannati a carcere duro ed a lavoro servile presso creature che sono loro simili.
Poi seguiranno separazione da familiari e amici, permanenza for­zata presso non credenti, faticato guadagno e rovinosa svalutazio­ne del denaro; amicizie appena stabilite verranno sostituite da ini­micizie definitive.
Poi vecchiaia senza alcun sostegno, malattie accompagnate da ri­morsi di coscienza e da torture senza numero, ed infine l'inesora­bile morte.
Dall'intenzione e dallo stato d'animo, con cui l'uomo esercita le sue azioni religiose e morali in questa vita, dipenderà in quella fu­tura la ricompensa, per mezzo di un corpo dotato delle caratteri­stiche corrispondenti.
(Codice di Manu, e. 12, nn. 53-81, in Menus Verordnungen, Verlag des Industrie, Weimar 1797, pp. 449-454).
(3) Nomi di caste inferiori.

Il divino che è al fondo di noi stessi
In verità questo grande, increato atman è fatto di coscienza nelle percezioni dei sensi. Quell'etereo spazio che è all'interno del cuo­re, è ivi che Egli dimora, Signore del tutto, sovrano del tutto, pa­drone del tutto.
... È lui che i brahmana cercano di conoscere mediante lo studio dei Veda, mediante il sacrificio, mediante l'elemosina, mediante l'a­scesi e l'astinenza: è soltanto conoscendolo che si diventa un vero asceta; è verso di lui che tendono tutti coloro che cercano un asi­lo sicuro nella vita errante.
(Brad-aranyaka-upanisad, let. IV, c. 4, n. 22, in Upanisad antiche e medie, p. 143).

Chi ha trovato e riconosciuto l'atman, in questo sviluppo di membra penetrato [il nostro corpo], costui diventa creatore, del Tutto autore, a lui appartiene il mondo, egli è il mondo stesso.
Finché quaggiù noi stiamo, dobbiamo apprendere questo: altrimenti, ignoranza ad estrema rovina ci conduce; coloro che già conoscono immortali divengono, quanto agli altri, sofferenza è il loro destino.
Allorché si è contemplato lo àtman, quel Dio, chiaramente Signore del passato e del futuro, non più da lui ormai si sfugge.
(Ibidem, let. IV, c. 4, nn. 13-15, pp. 141-142).

Liberazione dal « desiderio » e dal peccato
Colui che è attaccato, accompagnato dal suo karman [azione], va laddove la mente desiosa lo sospinge; qualunque cosa abbia potuto compiere, da quel mondo di nuovo ritorna a questo mondo, all'azione.
Così è per colui il quale desidera. Quanto a colui il quale non de­sidera, che è senza desiderio, che si è liberato dal desiderio, che ha raggiunto l'oggetto del suo desiderio [perché] altro non desidera che lo atman, i suoi spiriti vitali non gli sfuggono [per dirigersi verso altre regioni]: non essendo egli altro che brahman, egli pe­netra nel brahman.
Allorché tutti si dileguano, i desideri che ei portava in cuore, allora il mortale diventa immortale ed ancora quaggiù fruisce del brahman.
(Ibidem, let. IV, c .4, nn. 6-7, pp. 139-140).

Un peccatore può essere sciolto dal suo peccato mediante libera confessione, pentimento, devozione e mediante lettura degli Scritti [sacri]; oppure, qualora non sia in grado di compiere altre pratiche religiose, mediante l'elemosina.
Come un serpente si libera dalla propria pelle, così, allo stesso modo, il peccatore deve liberarsi dalla propria colpevolezza, fa­cendo sinceramente e volontariamente la confessione del suo peccato.
E il suo spirito di vita, contaminato dall'azione malvagia, ne sarà purificato nella misura in cui sinceramente la detesta.
Se egli davvero si pente di aver commesso un peccato, ne sarà an­che liberato. Se egli semplicemente si limita a dire: « Non voglio più peccare in questo modo », senza poi guardarsi seriamente da ulteriori peccati, non c'è per lui alcuna speranza di perdono.
(Codice di Manu, c. 11, pp. 228-231, in Menus Verordnungen, cit., p. 435).

Consigli morali induisti
Un maestro del Veda è l'immagine di Dio; un padre naturale è l'immagine del Brahma; una madre è l'immagine della terra; un fratello maggiore retto l'immagine dell'anima.
Perciò un padre spirituale e un padre naturale, una madre e un fratello maggiore non possono venir trattati senza rispetto, per lo meno da parte di un bramino, dovesse anche il discepolo aver su­bìto le più grandi offese.
I dolori e le preoccupazioni che un padre e una madre sopporta­no nel generare e nell'educare i propri figli, neppure in cent'anni possono venire ricompensati.
(Ibidem, c. 2, nn. 225-227, p. 66).

Le donne sono per natura portate, in questo mondo, a sedurre gli uomini. Perciò un uomo saggio sta sempre all'erta quando si trova in compagnia delle donne.
In verità, una donnaccia può in questa vita distogliere dal retto sentiero non solo lo stolto, ma anche l'uomo saggio; mentre gli manifesta la sua sottomissione, può infiammarlo di desiderio e di voglia.
(Ibidem, c. 2, nn. 213-214, p. 64).

Occorre via via raccogliere una provvista di atti virtuosi e non aver causato dolore a creatura alcuna, onde farsi un amico per la vita futura; proprio così come la saggia formica a poco a poco racco­glie il suo cumulo.
Nel viaggio, infatti, verso il mondo futuro, né padre, né madre, né moglie, né figlio, né parenti ci saranno accanto; solo la virtù non si staccherà da noi!
Ogni uomo nasce come un essere singolo, e come singolo muore; come singolo riceve il premio per le azioni buone, e come singolo viene punito per quelle cattive.
Quando uno abbandona a terra il proprio corpo come un pezzo di legno o di argilla, i suoi parenti distolgono lo sguardo e si allonta­nano; la sua virtù invece accompagna la sua anima. Non cessare dunque di raccogliere pazientemente i meriti della virtù; così potrai contare su di un compagno fedele. Sotto la guida della virtù dovrai infatti attraversare l'oscurità; e, ahimé, com'è difficile il farlo!   
(Ibidem, c. 4, nn. 238-242, p. 158).

Immoralità materialista  

Le persone nate con natura demoniaca... dicono che questo mondo non ha niente di reale, che esso non ha base, che è senza dio, esso non è sorto da un vicendevole concatenamento di cause ed effetti, e non è altro che il prodotto del piacere. Basandosi su questo loro modo di vedere, stolti, perdono le loro anime, e, crudeli nelle loro azioni, nascono malvagi per la rovina del mondo.
Si abbandonano alla libidine che mai non si sazia, pieni di frode, di orgoglio e di passioni, e colle loro menti ottenebrate, formandosi falsi concetti, vivono praticando opere impure.   
Il loro pensiero non conosce limite, e dà frutti letali, loro supremo pensiero è il godimento dei piaceri, perché essi sono sicuri che questo è tutto quello che è concesso all'uomo.   
(Bhagavad-Gita, let. XVI, nn. 7-11, Carabba, Lanciano 1922, pp. 136-137).

  
La via dell'amore  

Chi devoto, con cuore puro, frena con fermezza se stesso, abbandona gli oggetti dei sensi, come suoni, ecc., rigetta da sé amore e odio, chi vive lontano dal mondo, di poco si ciba, ha domato la parola, il corpo e il pensiero, tutto dedito all'esercizio della meditazione,  cerca sempre rifugio nella indifferenza al mondo,   
chi liberandosi dall'egoismo, dalla violenza, dalla superbia, dall'amore, dall'ira e dall'orgoglio, si mostra disinteressato e calmo, diventa atto ad entrare in Brahma.   
Venuto in Brahma, con lo spirito sereno, non più desidera né si addolora, equanime verso tutti gli esseri, egli ottiene il supremo amore di me.   
Coll'amore egli mi conosce quale e quanto io sono veramente, e avendomi conosciuto veramente, entra immediatamente in me.
(Ibidem, let. XVIII, nn. 51-55, pp. 155-156).  

Tu mi sei sempre stato caro per la fermezza della tua mente e io ti dirò il tuo bene.
Metti il tuo cuore in me, poni in me il tuo amore, a me sacrifica, a me rendi onore, e mi avrai. Io ti prometto il vero perché mi sei caro.
Lascia ogni altro dovere, in me solo cerca il tuo rifugio, io ti libererò da ogni peccato.
... Tu non devi rivelar questo (che io ti dico), né a chi non si esercita nell'ascesi, né a chi non ha amore per me, né a chi non ti vuol udire, né a chi mi calunnia.
Chi invece rivela questo supremo arcano a chi mi ama, riponendo in me un grande amore, entrerà indubbiamente in me.
(Ibidem, let. XVIII, nn. 64-68, pp. 157-158).

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